Il talento assimila meglio ciò che capiscono tutti, ma la formazione è crescita della persona, e non sola trasmissione di dati e informazioni già digerite.
È difficile insegnare al talento?
Farsi capire dal talento è facile, ma l’obiettivo vero è rivolgersi al suo ingegno e allenarlo perché sappia lavorare da solo, perché il suo talento è abilità ma, di più, che cosa ne sa fare. Con lui, si può parlare come con tutti ed essere capiti, ma questo è solo il primo gradino dell’insegnamento. Se si danno prodotti già confezionati, non si valorizzano le sue idee e proposte e non si permette che assuma iniziative non comandate e si eserciti con ciò che è nuovo e sconosciuto, non arriva all’ingegno, alla creatività, all’iniziativa libera, che sono le sue qualità vere. Si forma uno sportivo che esegue, ma non sa andare dove può scoprire le qualità che sono soltanto sue. L’istruttore non ci arriva chiedendo le stesse cose a tutti, ma ciò che è specifico di ognuno. Al talento, quindi, occorre offrire informazioni e dati conosciuti da assimilare, ma anche lasciarglieli interpretare, criticare e cambiare se ne trova di migliori. E poi, poterli usare per andare oltre ciò che gli può essere insegnato, perché è lì che vive il talento.
Lasciarlo andare dove non conosce può sembrare un rischio. Occorrono attenzioni, ma anche considerare che cercare la soluzione tra quelle che si conoscono invece di trovare al momento quella che richiede la situazione, per lui è un freno. L’istruttore deve operare su creatività e iniziativa libera, che sono doti dl tutto individuali e, per questo, può fornire spunti, ma non soluzioni, e solo dove il talento sembra fermarsi o perdersi. Deve lasciarlo libero di produrre quando la creatività procede sul versante utile, ma frenarlo e aiutarlo a correggersi se sbaglia, cercare di capire cosa c'è dietro un errore e lasciare che trovi la soluzione giusta da solo. E deve avere curiosità per aspettare, e vedere dove lo conduce il suo ingegno, e impiegare insieme le sue soluzioni.
E se è troppo diverso dagli altri? Se non è libero di provare il nuovo, va dove può essere seguito dagli altri, e non dove soltanto lui potrebbe andare, ma sarebbe un rischio per tutti. Se non si fa di tutto per tenerlo nel clima di gruppo affinché produca per la squadra, può diventare insofferente e disamorato, fare un uso troppo modesto delle sue qualità o anche lasciarle morire. La soluzione, dove è possibile, è formare squadre omogenee, senza temere chi parla di selezione come se gli altri fossero degli scarti, altrimenti gioca da solo in mezzo a degli esclusi. È, però, difficile che il discorso interessi la gran parte dei settori dilettantistici, perché i talenti veri sono rarissimi e sono reclutati rapidamente dalle grosse società.
La tentazione è fornirgli più informazioni e chiedergli esecuzioni complesse in anticipo sugli altri, ma così l’istruttore gli insegna gesti tecnici che solo lui può assimilare ed esercitare da solo, e si aspetta che produca invenzioni e soluzioni che gli altri non capiscono, perché chi non è altrettanto dotato non gli può rispondere. Non riesce, quindi, a portarlo a essere costruttivo per la squadra e lo isola. Inoltre, è facile che si faccia prendere dal piacere di portarlo sul difficile e di indottrinarlo con la sua esperienza, ma il talento ha bisogno di imparare a creare da solo. E intanto, se deve soltanto assorbire, non si abitua a criticare, prevedere, cercare soluzioni diverse e più complesse di quelle che gli insegnano o arrivare alle conclusioni usando i metodi e i passaggi che gli consente il suo talento.
Certo non resta fermo, perché impara come e meglio degli altri ed è gratificato da tutto l'interesse che gli è concesso, ma non va dove potrebbe arrivare, perché la specializzazione alla quale è sottoposto troppo presto, la rigidità dell'insegnamento e la fretta perché impari e faccia vincere prima ostacolano proprio quelle qualità che caratterizzano il suo talento.
Vincenzo Prunelli
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