Quando si parla di argomenti generali, non ci si riferisce mai alle singole persone, ma a eventualità possibili. E un percorso giovanile povero di stimoli o, addirittura, difficile, può mettere in moto reazioni imprevedibili.
Quando sbaglia lo sport
Per un bambino o un giovane, lo sport dovrebbe essere sempre gioia e piacere, ma si tende troppo spesso a trasformarlo in un lavoro che non piace o a cancellare ciò che ognuno potrebbe fare, che nello sport per tutti toglie soltanto interesse mentre, in quello di élite, mortifica il talento.
Spesso, lo sport impone un primo collaudo che può diventare fattore di squilibrio evolutivo. Può togliere entusiasmo, trasformarsi in un lavoro privo di piacere e dare l’avvio a tratti che diventeranno stabili. Per esempio, se chiede di imparare, ma non abitua a pensare e trovare da soli le soluzioni e non allena a essere costruttivi, dà sportivi pronti ad assorbire, ma non a cooperare e partecipare a un pensiero comune come chiede, per esempio, uno sport di gruppo. Può appagare senza stimolare a progredire e far preferire settori garantiti dalla migliore dotazione, evitare situazioni in cui è necessario misurarsi alla pari e trascurare altre opportunità.
Lo sport che utilizza quello che c’è, ma non allena a scoprire ciò che è soltanto potenziale, è un limite. Si gioca subito e solamente per vincere, ma non si lascia provare, il nuovo, che significa anche sbagliare, ed esclude le vie traverse, che danno qualcosa subito, ma bloccano la scoperta e lo sviluppo del talento. La competizione è soprattutto un agonismo fisico e speculativo che obbliga a impiegare soltanto mezzi e gesti che si conoscono e percorsi senza rischio, non permette di uscire dalle direttive ricevute, insegna espedienti e non consente di essere creativi. In questo modo lo sportivo, anche se vince, resta incompiuto perché penalizza il proprio talento, che non scopre e non impara a usare.
L'obbligo di vincere senza avere sviluppato fiducia nei propri mezzi, poi, è legato in modo indissolubile alla paura di perdere, un freno che opprime ingegno e iniziativa, e alla fine porta ai trucchi, a un’irruenza scomposta e, a volte, agli aiuti artificiali, che incidono allo stesso modo sulla persona e sullo sport. Infine, torniamo agli effetti sulla personalità e sul carattere. Lo sport non è ancora inteso come uno strumento educativo fondamentale per la vita adulta, ma una formazione che escluda la conoscenza e la consapevolezza dei propri mezzi può portare a non sentirsi all'altezza di ciò che chiedono l'istruttore, la famiglia e l'ambiente esterno, e lasciare una sfiducia che mostra con sentimenti d’inadeguatezza difficili da risolvere.
Una parte sfavorevole la recita anche il genitore che entra con buone intenzioni, ma con modi maldestri, nello sport del figlio. Quando, per esempio, gli attribuisce un ruolo eccessivo e lo allontana dall’assunzione dei compiti e dalla responsabilità. Non tiene conto del proprio ruolo educativo e lo solleva da difficoltà e doveri, compreso l’impegno nella scuola. È troppo severo ed esigente e guarda solo agli errori e alle sconfitte, perché non si appaghi e lavori sodo. Lo apprezza per il risultato e non per l'impegno e le intenzioni, e spegne il coraggio per provare e rischiare l’errore. O sogna l’impossibile, svalorizza ciò che può fare e lo obbliga a valutarsi solo per i successi, quando non ha ancora la maturità e la preparazione per tollerare le sconfitte.
Vincenzo Prunelli
Ti è piaciuto questo articolo?
Forse vuoi leggerne altri... Ecco alcuni articoli che hanno un argomento simile: