Nello sport si sente spesso parlare di punizione per una sconfitta o per un errore magari involontario o non evitabile per rispondere a una richiesta che non può essere soddisfatta, ma ha ancora senso punire per formare degli adulti?
Chiunque, compreso il bambino, quando trasgredisce deve andare incontro a una conseguenza certa, altrimenti può convincersi di essere sempre nel lecito o di essere autorizzato a spadroneggiare su chiunque. Non è, però, più il caso di parlare di punizione, anche se qualche volta non è un delitto perdere la pazienza. È diverso, invece, quando si usa la punizione come metodo educativo e formativo, perché impoverisce il rapporto, rende chi la subisce impermeabile anche agli apporti educativi corretti e non lo porta mai a una libera espressione delle proprie qualità.
Chi adotta questi metodi manifesta i condizionamenti e gli errori di tutti gli altri rapporti educativi, e di solito porta nello sport la reazione a prevaricazioni che subisce altrove. Vuole stimolare facendo “come ha sempre fatto” o come “fanno tutti”, e crede sia sufficiente perché l’allievo rinunci alla trasgressione per assumere subito l’atteggiamento voluto. In pratica, vorrebbe segnalare distanza, disistima e delusione, e umiliare l’allievo perché la reazione produca una risposta positiva.
Può, però, anche punire perché condizionato da un allievo che cerca la punizione per sfidare e fare il capopopolo nella squadra ma, paradossalmente, anche da quello che vuole avere attenzioni. In pratica, fa il gioco dell’allievo troppo reattivo, perché gli offre troppe possibilità di opporsi, dell’indolente, che paga la svogliatezza facendosi punire o di chi si sente non apprezzato, che può preferire un rapporto basato sulla punizione piuttosto che sentirsi rifiutato o escluso.
Oggi la punizione è più pericolosa. Se l’allievo resiste, chi insiste con questi modi non la può aumentare all’infinito, e alla fine deve cedere perché si sente in colpa o perché si rende conto di peggiorare ulteriormente le cose. E poiché dipende dal giocatore per conseguire risultati, è sempre in una posizione di debolezza. In ogni caso, procura ostilità e risentimenti difficili da cancellare che, se il ricorso alla punizione dura per troppo ed è comminata anche nella famiglia, si esprimeranno anche nell’età adulta.
Anche quando sembra accettarla, l’allievo accumula pericolose cariche di aggressività e motivi di vendetta che nasconde in varie forme di resistenza e opposizione. E più tardi, quando raggiunge una posizione nella quale si sente inattaccabile, può diventare ingovernabile, oppure manifestare in modo palese la sua incapacità e reclamare sempre un aiuto protettivo.
La reazione si può manifestare in molti modi. C’è l’allievo che trae vantaggi, perché ha l’opportunità di pagare con una punizione, e quindi di non sentirsi in colpa e di non doversi impegnare per correggersi. Quello che, mostrandosi più impacciato e incapace, colpevolizza l’allenatore per i propri insuccessi. Quello che scarica sull’allenatore le proprie responsabilità e si può compiacere di decretare l’impotenza dell’adulto. E quello volutamente ostile e astioso, che trova una facile giustificazione al proprio comportamento.
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