Insegnamento e apprendimento sono uno scambio reciproco e un’alleanza. Oggi l’insegnamento non è più arida trasmissione d’informazioni soltanto da assumere, richiesta di precise esecuzioni e ripetizioni, correzione di errori e imposizione di prestazioni che non si possono soddisfare. Troppi giovani hanno perso entusiasmo e iniziativa per una mancata evoluzione culturale e un’educazione che non ha seguito cambiamenti troppo rapidi. Si sono adagiati nell’attesa passiva che qualcuno portasse novità, o forse anche soltanto mode, senza chiamarli in causa perché offrissero una partecipazione attiva, fino a imporre, a volte, la loro presenza in atti clamorosi e privi di utilità. Non basta, ma sono utili alcune considerazioni e proposte che, per esempio nello sport, hanno dato risultati positivi.
Facilitare l’apprendimento
Oggi, il giovane accetta soltanto l’informazione che è stata elaborata in gruppo e, possibilmente, con la possibilità di portare contributi che magari non servono, ma lo fanno sentire partecipe e protagonista. Vuole capirne gli usi e imparare ad applicarla, perché patisce il freno all'ingegno e all'iniziativa. Non rifiuta la responsabilità, ma la deve provare da sempre, che non significa imporgli dei compiti, ma lasciarlo libero di fare la propria parte, perché, per lui, è il modo per sentirsi adeguato, capace di fare ed essere apprezzato e più simile all’adulto. Ha bisogno di conoscere gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli. In pratica cerca la competenza e l’autonomia per fare da solo, e si oppone agli ordini e alle pure esecuzioni.
Per un giovane che non abbia limiti intellettivi, imparare sembra facile, ma occorre considerare tenere tanti fattori soltanto apparentemente ininfluenti. Per esempio, quando si vogliono anticipare i tempi dell’apprendimento ignorando il periodi dello sviluppo. Il bambino vive, come si dice, “qui e ora”, non sa ragionare su qualcosa che non è presente, interpreta la vita come piacere e gioco e rifiuta tutto ciò che sembra a un lavoro. Se troppo sollecitato, ci prova, ma si stufa subito e si abitua ad evitare le imposizioni. Si può pensare che, per un bambino, avere più informazioni e nozioni sia un vantaggio, ma non capirle perché estranee all’età e non sapere che cosa farne sono pesi sullo sviluppo.
Quando si danno contenuti e programmi già definiti senza farne capire e valutare le premesse e gli usi e, tantomeno, fornire le informazioni necessarie per trovare il percorso verso gli obiettivi. Le informazioni non capite non offrono indicazioni per superare ciò è stato acquisito, perché sono corpi estranei buttati nel vuoto e scollegati da ciò che è reale, che hanno difficoltà a integrarsi per raggiungere un obiettivo. Da queste considerazioni al Torino è nata una tecnica di apprendimento che si può definire “insegnare a imparare”. Il concetto sembrava complesso, e Sergio Vatta lo riassunse in una frase: “Io do alcune indicazioni, poi lancio il pallino, i giocatori s’impegnano a trovare il percorso per raggiungerlo e li aiuto soltanto per un consiglio quando proprio non ce la fanno da soli”. In pratica, quando di un obiettivo si conoscono molti particolari, si è portati a organizzarli e a vederne lo sviluppo per trovare soluzioni personali.
Quando, più tardi, si pongono richieste eccessive per numero e complessità, che dovrebbero alimentare l’impegno a imparare. A parte che contenuti troppo complessi possono essere assunti senza essere capiti, e poi ricordati e rielaborati in stadi successivi dello sviluppo, però, i maggiori stimoli all’apprendimento sono atri. Innanzitutto, la consapevolezza di sapere imparare, la sicurezza per impegnarsi nel nuovo senza il timore di commettere errori, la possibilità di mostrarsi adeguati e la crescente sicurezza che deriva dalle verifiche positive delle proprie capacità. E, poi, la soddisfazione delle naturali motivazioni, come l’interesse a scoprire il nuovo e costatare i miglioramenti, avere un contatto sempre più appagante con l’ambiente e ricevere l’apprezzamento dell’adulto. Nella famiglia, per esempio, è dannoso far leva sull’ambizione per stimolare l’impegno e l’orgoglio con l'obbligo di essere sempre primi o di dover dare troppo e subito. Sono illusioni del genitore, che immagina tutto facile e possibile, mentre il figlio deve rassicurarsi di capire, essere trattato per ciò che può essere, e sapere come utilizzare le conoscenze che acquisisce per andare oltre da solo.
Quando s’insegna senza chiarire gli obiettivi, che sembra una mancanza di poco conto, ma impedisce di trovare una traccia su cui sviluppare ragionamenti e iniziative e, quindi, di creare e scegliere gli strumenti per raggiungerli. Nella scuola questo concetto può sembrare inapplicabile, ma se a ogni passaggio verso la soluzione si fa precedere la spiegazione di dove si vuole arrivare, gli allievi sono motivati e interessati a raggiungerla da soli.
E, infine, quando, nello sport, si danno tutte le indicazioni sperando che l’allievo le analizzi e, con il ragionamento, le trasformi in un gesto che dipende dall’istinto. Si pensa di correggere un errore scomponendo un gesto sbagliato in tanti particolari per ricostruirlo perfetto, ma è del tutto improbabile. E allora non correggere gli errori? Si va, come nella concentrazione prima della gara, al gesto giusto compiuto tante volte, che è rimasto integro nella mente, e si ripete ponendo solamente l’attenzione sull’obiettivo, come si fa nel basket quando si tira a canestro. Il discorso è complicato? È come quando risuona una canzoncina fastidiosa nella testa: più si cerca di scacciarla, più diventa molesta.
Vincenzo Prunelli
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