Nello sport, come ovunque, c’è chi è abile di gambe e difficilmente dominabile di testa, ma è tempo di pensare che le cause siano anche di una formazione non più adatta,
di scopritori che alla fine andranno a cercarli negli asili, e che un bambino non è una mazzetta di soldi che corre sempre più veloce per arrivare prima, e spesso non importa come, sul mercato.
La prima necessità, considerando la complessità di un talento e la difficoltà a formarlo, è una formazione dei formatori a trattare anche con i tempi dello sviluppo, la personalità e la mente. I giovani sono cambiati troppo e in tempi rapidi, e non possono più essere trattati con i metodi di ieri, altrimenti si avranno sempre di più talenti che man mano si perdono e tanti che percorrono carriere non all’altezza dei loro mezzi. Spesso si parla di tensione, freni psicologici e paure di ogni tipo, e allora vengono in mente certi guru, esperti da master o da corso trimestrale e figure ai vari livelli dello sport, che conoscono la mente come un medico sa fare i calcoli per il cemento armato di un palazzo, e fanno interventi bizzarri, spesso privi di logica e, soprattutto, dannosi.
Bisogna, poi, considerare che ci sono casi in cui la dotazione è addirittura un rischio. Non quella fisica o tecnica, ma quella che ha a che fare con le qualità della mente. Per esempio, il talento può esprimersi in modi che per gli altri non sono comprensibili, non riuscire a integrarsi nel clima del gruppo e patire più di loro la sconfitta o un giudizio negativo. La maggiore abilità e l’apprezzamento degli altri gli possono far perdere il bisogno di scoprire, verificarsi o vedersi dei limiti e, dunque, di completarsi e sviluppare qualità e caratteri per vivere bene fuori e dentro lo sport. Può essere inquieto perché sente di valere, e patisce a sottostare a limiti e ritmi degli altri, a volte non si adatta a compiti che gli sembrano banali o mortificanti per le sue qualità, oppure non si adegua alle esigenze comuni per una vitalità che può contrastare gli interessi collettivi.
Non sempre si sa far valere anche nell’ambiente esterno, dove non ottiene la stessa considerazione che trova nello sport. Di qui, inquietudini, ambienti e situazioni che non ha avuto interesse, o anche soltanto occasione di frequentare e conoscere, difficoltà ad adattarsi e bisogno di maggiori riconoscimenti. Può patire anche il successo, come credere di essere al centro di ogni attenzione e di poterlo sempre avere o, al contrario, vivere nel terrore di perderlo, e in questo modo trasformare in distanza la differenza che lo separa dagli altri. Ha una vivacità creativa che non può essere imbrigliata perché, se inespressa, si trasforma in insicurezza, insoddisfazione o inquietudine ribelle. E se non ha imparato a dirigere creatività e iniziativa, può arrivare al successo per la maggior dotazione tecnica, ma essere poco utile e non trovare soddisfazione nel collettivo, perché se sa scambiare contributi alza il livello di tutta la squadra ma, se gioca soltanto per sé, non migliora e prova tutto il piacere del gioco.
Lo sport stesso può essere oppressivo, e in questi casi, anche quando non allontana, è innegabile che soffochi le motivazioni e non gli consente di arrivare a scoprire e sviluppare tutto il proprio talento. Per esempio, quando ignora i tempi dello sviluppo, dell’apprendimento e della maturazione fisica e psicologica, pone richieste non ancora e, a volte, mai esaudibili, e propone un rapporto che crea distanza e scoraggia. Oppure, più tardi, quando pretende che vinca le gare da solo, o non lo abitua stare nelle regole perché è un campioncino. Oppure, lo può essere il genitore che gli attribuisce le proprie motivazioni, forze o illusioni, e lo umilia o, addirittura, lo punisce se non le soddisfa.
Vincenzo Prunelli
Ti è piaciuto questo articolo?
Forse vuoi leggerne altri... Ecco alcuni articoli che hanno un argomento simile: