Un istruttore: “Vorrei essere autorevole, e a volte ci provo lasciando fare o con un atteggiamento più rigido, ma non rispondono”.
Per essere autorevoli.
Nella formazione, l’autorevolezza può essere definita la capacità di conquistare stima, prestigio e fiducia per essere seguiti e imitati senza bisogno di richieste o sollecitazioni. Rispecchia il rapporto che si sa conquistare con i propri modi di essere e di proporsi, con la libertà che si concede senza lasciare uscire dalle regole e con la possibilità di essere una guida che trasmette le norme e i modi della vita adulta.
È riconoscimento, ma anche lo strumento educativo più efficace. L’istruttore alimenta l’interesse e la disponibilità a imparare, rispondere e cooperare, e ottiene le condotte volute senza attivare resistenze e opposizione. Riduce la distanza con gli allievi, e diventa il modello adulto da imitare e seguire. Dà coraggio e sicurezza per provare il nuovo, perché offre tutta la libertà e l'iniziativa che sanno amministrare. Stimola senza bisogno di comandare e permette al giovane di sentirsi accettato e portare idee e collaborare senza occupare spazi che non sono suoi, perché stimola il desiderio e la volontà di seguirlo.
Si conquista con l’equilibrio nel proporsi, cambiare ed evolvere, con la cura nel trasmettere i propri caratteri adulti, la capacità di guadagnare fiducia e apprezzamento. La prima attenzione è considerare la formazione come scoperta di se stessi e conquista di autonomia, che significano imparare a decidere e trovare le proprie soluzioni e non essere soltanto chiamati a eseguire applicando quelle degli altri. L’istruttore che autorizza a pensare, imparare a fare e correggersi da soli insegna a competere senza usare espedienti e sotterfugi, e concede la libertà che ognuno sa amministrare. Mantiene lo stesso rapporto di fronte ai successi e alle sconfitte, perché non ha necessità di mettere in dubbio l’impegno. Sta vicino fin dove serve per dare sicurezza, ma non lascia occupare spazi che sono suoi. E se la gioca sempre alla pari, che significa considerazione reciproca, ma sempre nell’osservanza dei rispettivi ruoli.
Può sembrare un atteggiamento tollerante, ma non è permissivo, perché accetta l’errore, ma non solleva dai compiti che spettano, e non fa sconti sugli impegni e sui patti stabiliti. Il giovane ha bisogno di una figura che indichi le regole che consentono di muoversi in spazi garantiti, lo vincolino a comportamenti costruttivi e lo frenino se confonde la libertà con l’improvvisazione l’azzardo e chieda responsabilità e impegno.
Perdere l’autorevolezza è quasi impossibile, perché fa parte del carattere, ma va acquisita, e tante volte non si riesce per errori involontari anche considerati utili. Per esempio, credere di incoraggiare con apprezzamenti eccessivi sono attestazioni di sfiducia, perché il giovane non valutato per ciò che può dare è esposto a disillusioni e sconfitte, s’illude di possedere qualità inesistenti, non acquisisce una misura dei propri mezzi e, alla fine, non diventa consapevole dei propri mezzi e di come usarli e perde sicurezza. Giustificare tutto senza chiedere di fare la propria parte, che è un profondo atto di disistima nei confronti di chi non ha i mezzi, e servilismo nei confronti dei più dotati o più utili. Fare l’amico, che è possibile tra pari, mentre troppa confidenza tra educatore e educato diventa autorizzazione a capovolgere i ruoli. Fare il padre buono, perché esserlo con troppi “figli” crea gelosie e rivalità rischiose, espone a preferenze inconsapevoli e rende difficili le correzioni. Lasciar nascere delle tensioni e volerle sopire con metodi troppo bruschi, o fingere di non vederle nella speranza che si sopiscano da sole o per paura di crearsi dei nemici, che sono tutti segni di debolezza che i giovani non perdonano.
Gli esempi sarebbero tanti, e allora è meglio concludere che non vi è autorevolezza nei casi in cui c’è una distanza che impedisce l’intesa per confrontarsi e fare insieme nel rispetto dei propri ruoli, o una vicinanza appiccicosa che impedisce di esercitarli.
Vincenzo Prunelli
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