[Domanda da Di Carlo Risi Milano]
Nell’articolo della Stampa del 25 luglio si parla di un gruppo speciale e di atmosfere mai più vissute.
E di comportamenti educati e di autorevolezza di Emiliano Mondonico, al quale va un pensiero di gratitudine per avere guidato la squadra contro l’Aiax, sollevato la sedia contro la sfortuna, ed essere stato un allenatore da Toro.
Ad Amsterdam, la squadra comprendeva Cravero, Benedetti, Venturin, Lentini, Cois, Sordo, Bresciani e Vieri, tutti formati alla scuola di Sergio Vatta. È stata una partita che si disse giocata al 110%, che nella Primavera del Torino era il modo in cui si giocavano tutte. Di Vatta neppure un accenno, anche se abbiamo inventato una formazione che ha portato il settore giovanile del Torino a essere verosimilmente il migliore di tutti i tempi. Pochi mesi fa, a dribbling, al quesito del perché in Italia non nascono più talenti, la risposta di Marco Tardelli fu che non ci sono istruttori che li sanno formare, e soltanto Milena Bertolino, l’allenatrice della nazionale femminile, a distanza di quaranta anni, ha ricordato Vatta come l’allenatore che è stato in grado di farlo. Non se ne parla mai perché abbiamo ideato metodi non abituali e, quindi, difficili da assimilare e usare nel pratico.
Ci siamo interessati del fisico e della mente e abbiamo eliminato violenza e arroganza, proposto un calcio che escludeva trucchi, furbizie, un agonismo intriso di furore agonistico, violenza, “rabbia” e tensione e inventato una concentrazione che conteneva e permetteva di rivivere in ogni gara tutto il bello che ognuno aveva provato nel calcio.
Ci siamo interessati della formazione della persona per crescere un adulto allenato a pensare, fornire risposte costruttive e decidere da solo, aperto a nuove conoscenze ed esperienze e preparato a conoscersi e modificarsi fino a raggiungere la propria completezza personale e sportiva. E, poiché si parla di calcio, formavamo professionisti allenati a una controllata capacità di indirizzare nel miglior modo le proprie risorse, coerenti e capaci e in grado di raggiungere la maggior funzionalità anche fuori dello sport.
Descritti in questo modo, sembravano giovani troppo controllatili e quasi tristi, privi della vitalità e dell’euforia di ventenni, ma erano, invece, allegri, sereni e socievoli, perché riconosciuti per i loro meriti sicuri dei loro mezzi e appagati dai risultati che conquistavano. Forse l’autore si riferiva a quei giovani chiassosi, invadenti, molesti e alla ricerca di apprezzamenti precari che non erano certi di ottenere in altri modi nello sport.
Vincenzo Prunelli
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