Perché un giocatore che era il mio punto di riferimento nella squadra, da quando è subentrato un altro altrettanto bravo e trascinatore, è in perenne contrasto con me invece di nutrire gelosia nei confronti dell'ultimo venuto?
Quando un giocatore se la prende con l’allenatore invece che con il rivale significa che non soffre tanto per la bravura dell'altro quanto per la convinzione, a volte anche fondata, di essere stato declassato.
Oppure vuole esprimere in questo modo una condizione di eccessiva dipendenza. Può capitare, infatti, che quando un allenatore ha fin troppa fiducia nelle qualità e nell'equilibrio di un giocatore che ha fin troppo magnificato, creda di non dover più fare nulla per dargli delle conferme o per sostenerlo.
Non si può, però, escludere che, come avviene per gli entusiasmi poco contenuti e magari anche interessati, l’allenatore, come fa spesso il genitore, anche senza rendersene conto abbia puntato più decisamente sul nuovo arrivato perché più bravo.
Può anche accadere che un problema di rivalità e la paura di non contare più come prima alla fine lo facciano sentire trascurato e messo in secondo piano. Per capirci, è quello che capita al figlio primogenito quando lo trattiamo più da adulto rispetto al fratello proprio perché lo riteniamo tale, mentre lui ha ancora bisogno di conferme.
È certo, in ogni caso, che questo giocatore stia chiedendo una maggiore attenzione. L'allenatore gliela deve dare, senza però privilegiarlo rispetto all'altro, ma offrendo a entrambi l'opportunità di sentirsi valorizzati per i contributi che sanno dare alla squadra. Il caso rivela, infatti, che il giocatore è abbastanza sicuro da non patire troppo la bravura del compagno, ma non abbastanza per non avere bisogno delle conferme e dell'approvazione dell'allenatore.
Il caso porta a una considerazione: quando si ha a che fare con i giovani, stiamo attenti alle predilezioni, anche se non interessate. Lo facciamo per affetto, per un’intesa più immediata, perché ci sembrano più bisognosi di considerazione o perché abbiamo un sentimento paterno, ma il giovane ci può ricambiare con un affetto ’filiale’ e in questi casi l’”abbandono” non è facilmente tollerabile.
Quindi, facciamo i padri con i nostri figli, e non con quelli degli altri. Sia perché metteremmo in secondo piano quelli veri, che devono anche imporre e proibire, mentre noi li facciamo divertire e, sia, perché se creiamo la grande famiglia, i figli, quasi inevitabilmente, entrano in conflitto per conquistarsi più affetto e attenzioni.
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