Nei settori giovanili vi sono troppi abbandoni. Quali sono i ragazzi "a rischio"? E quali le nostre responsabilità?
Se non prestiamo attenzione alle diverse motivazioni e ai naturali problemi del ragazzo (sfiducia nelle proprie possibilità, fase critica di crescita, interesse per un altro sport, illusioni e pressioni esagerate), vi possono essere errori da parte di tutti e tutti i ragazzi sono a rischio.
Si possono presentare diversi casi. Il ragazzo può:
- rendersi conto di essere meno dotato degli altri e, di conseguenza, non essere più disposto a misurarsi per non sentirsi inferiore;
- abbattersi perché attraversa un momento critico della crescita che lo rende impacciato;
- essere stato illuso di poter sfondare e, alla fine, abbandonare da sconfitto;
- essere stanco di venire trattato come un piccolo professionista e di un clima tetro ed esigente che rende sgradevole lo sport.
I ragazzi fanno solo ciò che interessa e dà piacere. Non sempre lo sport soddisfa queste esigenze, anzi spesso le ignora e le soffoca. A volte la causa dell'abbandono è un rapporto non adeguato all'età o privo di rispetto e di attenzione. Inoltre, alcuni operatori non sono adatti ad avere a che fare con i ragazzi.
Il ragazzo può sentirsi sovraccaricato da:
- un'organizzazione e sistemi troppo oppressivi;
- allenamenti "scientifici" privi di divertimento;
- un insegnamento che privilegia esercizi ripetitivi ed esecuzioni a spese della creatività e dell'iniziativa individuale;
- un senso dell'agonismo sbagliato, basato solo sul "giocare per vincere";
- aspettative e stimoli eccessivi, che portano alla paura di perdere e, quindi, all'impaccio e alla delusione.
I bambini si avvicinano allo sport con grande entusiasmo, ma a partire dagli 8 o 9 anni molti perdono interesse e stimoli, fino ad arrivare, attorno ai 14-16, a decidere di smettere. Può essere anche colpa dei genitori?
Spesso è il genitore più interessato che il figlio sfondi nello sport che può spingere il ragazzo a smettere.
Questo avviene quando:
- carica il ragazzo di attese e obblighi, e non accetta che possa non riuscire;
- crede di essere l’unico competente in materia e pretende dal figlio solo esecuzioni precise, senza tenere conto che ha idee, mezzi e desideri propri;
- lo tratta come uno strumento per realizzare le proprie aspettative, punendolo e umiliandolo quando non vince;
- gli rinfaccia i sacrifici, accusando il figlio di ripagarlo con gli insuccessi;
- lo giudica in base al risultato e non alla prestazione e all'impegno;
- si lascia andare a scenate emotive, oppure fa manovre sottobanco o si rende servile per favorire il figlio e procurargli dei vantaggi, facendolo vergognare nei confronti dei compagni e dell'allenatore;
- spinge il figlio a iniziative e atteggiamenti che lo mettono contro tutti, a cominciare dall'allenatore, fino a rendergli impossibile stare nel gruppo.
Come si spiegano nel professionismo i casi di giocatori che preferiscono smettere con lo sport?
Le cause possono essere l'eccessiva esasperazione, il peso di un lavoro privo di piacere e pieno di ansie e di pressioni, la voglia di vivere come gli altri. A volte alcuni, pur non abbandonando, continuano a fare sport in modo passivo, trascinandosi in una modesta routine.
Vi sono professionisti che abbandonano ancora nel pieno del successo. Le ragioni possono essere ricercate in uno sport troppo esasperato e nel desiderio di togliersi di dosso ansie e pressioni, per vivere finalmente una vita come tutti gli altri. Non sono solo i meno resistenti e meno motivati a smettere. È lo sport a volte il vero responsabile dell'abbandono, quando crede di raggiungere i livelli più elevati di rendimento costringendo chi lo pratica a uno stress difficile da tollerare. In pratica, non sa impiegare tutte le risorse dell'uomo e coltiva l'illusione di crearne di nuove o di farle rendere usando metodi che fuori si rifiutano perché si sa che sono negativi.
A parole certi metodi sono condannati, ma nella pratica si cerca ancora di spremere tutte le risorse dell'atleta, e lo si tratta come un robot solo da programmare: pensiamo ai drammi per una sconfitta, ai ritiri nei quali si vive nella noia, alle sollecitazioni e ai climi di tragedia creati per stimolare un impegno che diventa sterile proprio perché l'atleta è troppo stimolato, al "tu pensa a giocare che a pensare ci penso io”, quando il gioco è prima di tutto pensare e creare, o al trattare gli atleti da bambini, anche se c'è bisogno di giocare da adulti.
E, infine, vi sono quelli che se ne vanno pur continuando a fare sport. Sono quelli che si trascinano fino a fine carriera a livelli modesti rispetto alle potenzialità, senza entusiasmi e colpi di ingegno. Spesso questi professionisti si chiudono in mille contorsioni mentali e in mille problemi, senza che nessuno li aiuti a risolvere i propri conflitti: finiscono così per farsi condurre per mano, anche se avrebbero gambe e testa per camminare da soli.
Come comportarsi con un ragazzo di 12 anni che vuole smettere con lo sport: lasciar perdere, insistere, cercare di convincerlo?
Un ragazzo smette se non riesce o non si diverte. Cerchiamo, però, di capire quali sono le sue ragioni e correggiamo quelle che dipendono da noi e dallo sport. È probabile che con lui abbiamo usato gli stessi sistemi che si usano con gli adulti: pretendiamo che ragioni come noi, che non possa mai sbagliare, che desideri le nostre stesse cose o che faccia come faremmo noi al posto suo.
E intanto vediamo se:
- noi e la famiglia lo abbiamo caricato di attese eccessive e solo nostre, come diventare il campione o dover essere sempre il primo;
- abbiamo creato un clima privo di gioco e di divertimento, oppure chiesto un impegno e un'applicazione già professionali;
- abbiamo anticipato i tempi e applicato un insegnamento non ancora comprensibile, o preteso una specializzazione precoce, che hanno finito per stancarlo;
- lo abbiamo costretto solo a imitare e a eseguire, mentre fino a questa età, attraverso il gioco, il ragazzo ha bisogno di scoprire e seguire la sua creatività e la sua fantasia.
A volte, per recuperare il gusto dei ragazzi basta riportare lo sport a un gioco, senza escludere il giocare per vincere, che non ha bisogno di essere stimolato o imbrigliato in schemi, perché la competitività è connaturata con l'individuo in qualsiasi età.
Psicologia per lo sport in 400 domande e risposte, - Vincenzo Prunelli, Edizioni Calzetti & Mariucci
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