Parlare di abbandono prima che inizi la stagione può non sembrare utile, ma adottare da subito qualche cautela evita brutte sorprese. Troppi sono convinti che lo sport debba piacere e un giovane, figlio o allievo, abbia i gusti, le motivazioni, la costanza e le forze di un adulto e, quindi, si possano usare gli stessi metodi. Tanti abbandonano e altri si adattano, ma non arrivano agli sportivi che potrebbero essere.
La disaffezione per lo sport
Che a un giovane lo sport, da un certo momento, non piaccia più, non stupisce, perché possono subentrare altri interessi, e molti si accontentano di non doversi impegnare per qualcosa che costa fatica e rinunce e non dà subito piacere. Oggi c’è chi è meno attratto dal gusto di misurarsi, perché vive un mondo neutrale che permette di non dover competere per sentirsi accettati, il successo ha perso attrattiva per mancanza di occasioni e per la cultura del “tutto e subito”, che dà senza chiedere, e ha scarsa attitudine a impegnarsi senza un vantaggio immediato. Coltiva amicizie virtuali, che non gli impongono prove, contrasti e adattamenti, e dunque non lo impegnano ad adattarsi agli altri. Per un’educazione che spesso soddisfa senza dover chiedere, resiste alla disciplina, agli impegni e agli obblighi essenziali. È spesso povero di progetti proiettati nel tempo che richiedano impegno, ed ha meno iniziativa e interesse per gli obiettivi che esigono responsabilità.
Vogliamo, però, parlare di chi l’intrese per lo sport lo ha perso. Uno sport si pratica se diverte e interessa, ma già dai primi contatti occorre tenere conto che deve piacere al bambino, rispondere ai suoi desideri ed essere adatto ai suoi mezzi, altrimenti non lo trasforma in una passione. La prima regola perché non si disaffezioni è non illudersi che uno sport che non interessa alla fine entusiasmi.
Perché si sviluppi un legame vero, bisogna tenere conto delle motivazioni, che sono i motivi, diversi per ognuno, che spingono a scegliere i campi e gli interessi che sollecitano l’impegno per soddisfarle, e l’attrazione per gli obiettivi che si vogliono raggiungere. La principale è determinata dal divertimento e dal piacere del gioco, che il bambino rafforza con la scoperta delle attitudini e lo sviluppo delle abilità, perché permette lo sfogo dell’esuberanza fisica, l’esercizio di un’iniziativa libera da vincoli e proibizioni e la possibilità di provare iniziative e gesti sconosciuti. Rifiuta, invece, lo sport inteso come lavoro in previsione di obiettivi troppo lontani e soltanto ipotetici, le applicazioni quasi professionali, gli allenamenti pesanti e noiosi, la fatica senza divertimento, un’attività nella quale, come stimoli, s’impiegano il sacrificio e la voglia, l’agonismo esasperato e prematuro, le ripetizioni senza fantasia e un gioco soltanto per vincere. Vuole misurarsi, mostrare le proprie qualità e anche vincere, ma non è attratto dalla combattività che vede spesso negli adulti, e non conosce i trucchi, la violenza e l’umiliazione dell’avversario.
Rispettare le tappe dello sviluppo, che richiedono interventi e modi specifici. Il bambino non possiede il pensiero astratto, vive qui e ora e non sa ragionare come l’adulto. Non ha significato, quindi, imporgli la specializzazione, dare lunghe spiegazioni teoriche e fare sermoni per chiamare all’impegno, condizionarlo con raccomandazioni e ordini o guidarlo ordinandogli le azioni e le iniziative più logiche invece di permettergli di scoprirle e provarle da solo. Inoltre, in questi casi, si chiedono esecuzioni di solito perfette e non imitabili magari copiandole dai campioni, ma ognuno ha capacità e forze ben definite. Al bambino, e neppure all’adulto, quindi si possono chiedere prestazioni impossibili: il primo cresce nella sicurezza e nell’iniziativa se ogni giorno ha l’occasione di vedersi più abile e non sentirsi inadeguato, incapace e colpevole per non avere soddisfatto una richiesta che non può ancora capire che è illogica, mentre il secondo, semplicemente, perde interesse.
La disaffezione può dipendere dal rapporto del giovane con lo sport. Può rendersi conto di non essere dotato quanto pensava, o gli hanno fatto credere, e non accetta di essere considerato il punto debole della squadra. Vivere un momento troppo rapido di sviluppo che lo rende impacciato. Sentirsi oppresso da un'organizzazione e sistemi troppo oppressivi copiati da settori giovanili famosi anche se gioca in una squadretta. Avere un discreto talento, ma non poter dare sfogo alla creatività e all’iniziativa, perché è solo costretto a ripetere e a eseguire i gesti che gli sono richiesti. Giocare gare presentate come imprese smisurate, e ogni sconfitta trasformata in una colpa o in una ricerca di responsabili. Non sopportare più un clima tetro che rende sgradevole lo sport, allenamenti solo faticosi e privi di divertimento, un insegnamento che chiede ripetizioni ed esecuzioni a spese della creatività e dell'iniziativa, un agonismo soltanto per vincere con qualsiasi mezzo senza lasciar liberare il talento, o richieste e stimoli irragionevoli che frenano la competizione. E poi, c’è il giovane con un caratteraccio da mitigare che rifiuta qualsiasi limite, e non può essere lasciato libero di guastare il clima della squadra.
Infine, c’è il genitore che vuole il figlio campione per placare certi disagi per insuccessi che ha patito. Lo carica di attese e obblighi, e non accetta che possa fallire. Lo vuole solo vincitore, e lo giudica per il risultato e non per la prestazione e l'impegno. Si considera il solo competente, ed esige che interpreti e viva lo sport come farebbe lui. Lo tratta come uno strumento per realizzare le proprie illusioni e, se non vince, lo punisce, gli rinfaccia i sacrifici e lo accusa di ripagarlo con gli insuccessi. Si lascia andare a scenate emotive che lo imbarazzano, fa manovre sottobanco per procurargli dei vantaggi o lo spinge a iniziative e atteggiamenti che lo mettono contro tutti e gli rendono difficile stare nel gruppo.
Oppure, c’è il genitore assente, che considera lo sport un passatempo senza valore educativo e formativo. Non lo segue e non s’interessa dei metodi e degli obiettivi della società anche quando sono diseducativi. Se il figlio ha problemi con la scuola, lo sport diventa la prima perdita di tempo da eliminare o uno strumento di ricatto, fino a proibirlo se ha difficoltà a risolverli. Ciò non vuol dire che si debba premiare il giovane che la trascura, ma che lo sport, purché osservi certe regole, ha effetti favorevoli anche sulla scuola. E neppure che non ne debba pagare le conseguenze, ma che prima devono riguardare le tante attività perditempo spesso utili anche ai genitori per non essere disturbati.
Vincenzo Prunelli
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