Un discorso sulla classifica è molto vasto, e cambia seguendo lo sviluppo del giovane nello sport fino ad arrivare al professionismo.
In quest’articolo si parla di Scuola Calcio, in pratica di bambini, e la classifica ha un significato relativo. Il bambino gioca una partita per volta e, sia la vinca o la perda, la finisce con il fischio di chiusura per cominciarne un'altra. E senza provare disagi e vergogna per la sconfitta o per la classifica, né sentirsi diverso e migliore se ha vinto. Vuole, però, vincere, migliorare e valorizzarsi nei confronti dei coetanei, perché è la sua natura, e non per questo va frenato, altrimenti non ci sarebbe l’adulto.
Da qualche tempo, si è fatta strada l’opinione curiosa che la competizione sia quasi una forma di aggressività da frenare o, forse, che essere avanti in classifica possa portare a una forma di appagamento pericoloso. Per esempio, da quando si è parlato di educazione nello sport qualcuno, anche se solo a parole, ha pensato a un bambino tutto bontà e altruismo, garbato e sempre disposto a scansarsi per non scontrarsi con un avversario soltanto più combattivo. E ha trasformato il progetto ideato e nato al Torino come “Primi calci” in “Piccoli amici”, magari accostando la parola “calci” a “calcioni”. Non è così, e semplicemente è stata l’intenzione di dare una primogenitura in mancanza d’idee proprie.
La classifica, che è la misura della continuità e delle forze della squadra, non è negativa in sé, ma per i significati che le attribuiamo noi adulti: è troppo importante, e la vittoria diventa l’obiettivo. Siamo in disaccordo quando vediamo giocare un bambino soltanto per la vittoria, la classifica e il futuro da campione anche se è una sconfitta per lo sport e, poi, per l’adulto. Per seguire questa illusione, non ci curiamo che imparino dalla partita, che è il modo più efficace, o forse l’unico, per scoprire e sviluppare il talento. E non ci chiediamo se i trucchi e gli espedienti per vincere oggi non siano le premesse per non vincere quando conterà anche solo per provare soddisfazione nello sport. La conclusione è che la classifica, che può essere soltanto un foglietto appeso di cui non si parla mai e non influenza chi gioca, per i bambini non è un turbamento né un’istigazione alla violenza. E che, purché non interpretata dagli adulti, può essere un apprezzamento vantaggioso, perché soddisfa un’importante motivazione a migliorare.
Certo, la classifica non accontenta tutti. Nello sport ci sono i meno dotati, che patiscono se sono sempre sul fondo, e allora la classifica diventa negativa quando ci sono troppa differenza di forze tra le squadre e l’obbligo della vittoria, che diventa facilmente paura di perdere. Usciamo un attimo dal tema. Non si può vincere tutti, ed è opportuno che, per i bambini meno dotati, si facciano i conti con le loro possibilità. Discorso insensibile? Ognuno vive bene nella casella permessa alla propria dotazione. Se vuole mettersi sopra, o ci viene messo, sarà inadeguato e sottomesso, oppure astioso e in cerca di altri responsabili e, se è messo sotto, insoddisfatto o in cerca di campi non sempre rassicuranti per prevalere.
La classifica può produrre effetti negativi. Per esempio, in una squadra che va subito sul fondo e non si risolleva, i giocatori sono scoraggiati, l’istruttore è deluso e i genitori, sempre sicuri di procreare solo campioni che valgono molto di più, lo contestano, e seguono i figli con distacco o li portano via. Neppure in questo caso, però, la colpa è la classifica ma è piuttosto la troppa differenza di forze, perché quando non si può vincere e perdere diventa difficile parlare di sport.
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