Pillole

La protezione è dare ai giovani tutto pronto, non affidare compiti né chiedere impegno o, anche, liberarli da qualsiasi incombenza perché riescano meglio nella scuola oppure nello sport. Educare è essere pronti a rispondere ai dubbi, limitarsi a offrire opinioni e portarli a trovare da soli le soluzioni.

 La protezione all'infinito

La protezione adottata come metodo, e non solo in modo occasionale e come ultimo rimedio di fronte a situazioni problematiche, ha una sua efficacia, ma solo momentanea.

Serve per arrivare più rapidamente alle soluzioni, ma non alle proprie, offre garanzie solo provvisorie, sopisce la sicurezza, il coraggio e l'iniziativa, e finisce per dare uno sportivo in grado di vincere subito, ma in difficoltà nello sport adulto.

L'istruttore protettivo non allena a imparare né a trovare da soli le soluzioni e, quindi, non offre garanzie nei confronti delle future difficoltà. Man mano che le richieste si faranno più pressanti e impegnative, infatti, l'allievo si scoprirà più privo dei mezzi necessari per affrontarle. L'aiuto protettivo e l'esecuzione priva di critica non saranno più sufficienti, e il giovane scoprirà di non avere le motivazioni e la sicurezza necessarie per arrivare dove lo sport è coraggio e decisione. Non potrà, allora, che rinnovare la ri­chiesta di protezione e, in questo modo, continuare ad avere biso­gno di qualcuno che lo sappia soccorrere.

Il modo di chiedere protezione cambia con l'età dell'allievo. Prima è attesa, affidamento e adesione passiva, un atteggiamento naturale quando mancano ancora le esperienze e la sicurezza per fare da soli. Più tardi, quando nel ragazzo troppo protetto e, quindi, privo della responsabilità e delle abilità per affrontare ciò che richiede l’età, compare il na­turale desiderio di autonomia, la richiesta di protezione può assumere forme imprevedibili. C’è chi diventa apatico, indolente e magari scontroso o si scoraggia facilmente, che non è per forza disinteressato, ma può semplicemente aspettare di essere preso per mano perché non sa camminare da solo. Chi, invece, diventa scontroso, si ribella, elude gli impegni, sfida o è inutilmente arrogante, pur in modo non consapevole, richiama un intervento autorita­rio che lo ponga nuovamente nella condizione di essere guidato e protetto.

Nello sport, che piace e stimola l’umore e l’iniziativa, il protetto può essere il ragazzo che non è mai chiamato a pensare e decidere qualcosa da solo ed è sempre in attesa di un’indicazione e di un comando, ma bisogna anche considerare le cause che vengono da fuori. Il giovane di oggi è ancora figlio di un ambiente che spesso da sin troppo in cambio di un impegno del tutto ordinario, e interpreta ciò che richiede responsabilità e fatica come impegno troppo gravo­so o, comunque, non necessario.  Troppi ragazzi che arrivano allo sport, quindi, sono ancora allenati ad accontentarsi di conquiste parziali e di gratificazioni provvisorie. E una non trascurabile è l'opportunità di avere un adulto al proprio servizio.

Lo sportivo cresciuto in un clima protettivo deve, alla fine, prendere atto di essere inadeguato e privo di autonomia e, quindi, di non essere sempre all'altezza delle situazioni. E allora può solo scegliere tra alcune scappatoie ugualmente svantaggiose: si ritira dalle situazioni nelle quali non si sente garantito, tenta di imporsi comunque e, senza la necessaria misura emotiva, finisce per essere emarginato, oppure si accoda a qualcuno che gli dica sempre che cosa fare.

Lo sportivo adulto troppo protetto arriva anche a strutturare tratti del carattere non più modi­ficabili. Può acquisire l'abitudine a vivere da individuo passivo, privo della sicurezza preventiva nei confronti delle iniziative e portato ad affidarsi sempre a qualcuno in grado di decidere per lui e di sollevarlo dalle responsabilità. Oppure, può convincersi che ogni situazione estranea al mondo dello sport sia ostile e priva di sicurezza, e dunque non acquisire le necessarie esperienze per vivere anche da non giocatore.

Vincenzo Prunelli

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