A fare gli psicologi non si gioca, perché è come voler curare malattie con medicine che non si conoscono e possono aggravare i sintomi.
Sentirsi tutti psicologi
Di psicologia si sente parlare troppo spesso anche da chi non la conosce. C’è chi la confonde con il buon senso comune e, per questo motivo, si commettono sempre gli stessi errori soltanto più gravi, perché non basta la richiesta per ottenere di più ma, anzi, spesso non si arriva a ciò che è possibile. Chi la confonde con la propria personalità, per cui tutti devono essere e fare come lui anche se ognuno è diverso e si deve adattare a modi che non sono suoi e possono essere addirittura un freno. Pensiamo, per esempio all’adulto che chiede gesti e prestazioni impossibili per l’età e la dotazione, o al talento, che deve adattarsi a eseguire male ciò che fanno tutti invece di ciò che è possibile solo a lui. Chi è convinto che l’adrenalina sia la soluzione, perché più si è eccitati e meglio è, mentre, oltre un certo livello limita il rendimento.
Chi ha frequentato qualche corso, che applica qualcosa che poi non sa regolare, perché le risposte dipendono dalla persona più che le richieste che sono state fatte. In pratica, una tecnica appresa dice come fare e richiede una banale esecuzione, mentre chi agisce, sportivo o altro, ha tanto di suo che può scoprire soltanto con il proprio ingegno. Oppure, chi considera la psicologia come l’arte di fare felici e, nello sport, stare dalla parte dell’atleta, da trattare con ogni cautela perché proceda senza dubbi e abbia tutti i vantaggi di una conduzione che toglie tutti i disagi e le incertezze. E per questo certi istruttori hanno timore che sia una conduzione “dolce” che blocca la belva frenetica che c’è in ognuno.
La psicologia, però, non è questo. È l’allenamento a scoprire e gestire il proprio talento, la capacità e il coraggio di andare da soli nel nuovo, un agonismo che non si disperde in atti o gesti inutili e improduttivi, ma è iniziativa lucida e, per quanto possibile, libera. Qualcuno la interpreta semplicemente come un intervento sulla prestazione e, quindi, in funzione del risultato, ma è troppo poco. Come ho scritto nel libro “Famiglia, scuola e sport. Le tre agenzie educative per formare la persona e lo sportivo”, una psicologia che non formi stile di vita, personalità e carattere è come perdere la più grande occasione per formare la persona, che è intelligenza, creatività, ingegno, iniziativa, coraggio quando si può anche sbagliare e sicurezza per riprovarci mettendo in gioco tutte le risorse.
Eppure, a troppi fare gli psicologi sembra facile. Si usano parole che non lasciano traccia, si può sempre dire che la colpa è degli allievi e pensare a interventi più incisivisi ma, se un rimprovero è inefficace, un’aggressione verbale o una minaccia annullano quel po’ di sicurezza e coraggio che uno può avere. L’istruttore vuole sempre fare bene, ma ci sono interventi che vorrebbero ottenere una cosa, ma stimolano il suo contrario. Se, ad esempio, per indurre maggiore impegno, parla di un compito molto difficile, stimola la paura di non farcela, che è il freno più ostinato del rendimento. O se, per stimolare un giovane essere più ambizioso, gli attribuisce qualità inesistenti, blocca quelle reali, e gli impedisce di essere ciò che sarebbe possibile.
Gli interventi negativi che vorrebbero essere d’aiuto sono tanti. Per esempio, la sfiducia per stimolare l’orgoglio, o il senso di colpa per una sconfitta quando non si sa perché l’allievo non è riuscito a gareggiare come avrebbe voluto. Il rimprovero per un gesto non riuscito che non incoraggia, ma abbatte. Le lunghe “sedute psicologiche” dopo una gara persa giocando bene o l’entusiasmo per una vinta in modo fortunoso e senza merito. E non finisce tutto lì, perché un allievo trattato da incapace e limitato, a volte non si libera di questi caratteri neppure dopo lo sport.
Vincenzo Prunelli
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