Pillole

Il dirigente del Cagliari non è un bieco oppressore, e forse è soltanto quello che “se giocassi io darei sangue per vincerle tutte e onorare la maglia”, oppure vuole solamente dire di non avere responsabilità o mostrare grande determinazione. Non sappiamo se i giocatori del Cagliari non siano veri professionisti, giochino male volutamente, stiano tramando qualcosa contro la società, o magari abbiano già accordi con un’altra. Lasciamo perdere le ipotesi complottiste, e non perché non ci possa essere qualcosa di vero, ma perché quello usato non è il metodo migliore per risolverle.

La crisi è colpa dei giocatori!

Bisogna innanzitutto smettere di attribuire i motivi della crisi alla mancanza di voglia e al disinteresse dei giocatori, come se il rendimento fosse una specie di acceleratore che basta schiacciare per arrivare sempre primi. I motivi sono tanti, da un senso d’insicurezza, confusione e affanno di non farcela che blocca creatività, decisione e colpi di genio. Si può descrivere come un velo davanti agli occhi che annebbia gli automatismi e costringe l’iniziativa a passare prima attraverso il ragionamento, che la rallenta e impegna soltanto a tentare di evitare l’errore. Si passa dall'iniziativa immediata all’incertezza e dall'invenzione al compitino, fino a soffocare talento e agonismo o alla fuga dalle responsabilità per salvare ognuno se stesso.

Vorremmo tutti che, da una parte, bastassero una sollecitazione, però senza andare oltre come, invece, ha fatto il nostro dirigente e, dall’altra, un impegno forzato per andare sempre al massimo, ma non è così ed è il caso di ripetersi. Tutti ricordiamo la gara più bella della vita, in cui eravamo sereni, ottimisti, incitati dall’ambiente, liberi di fare e non frenati dalla paura di sbagliare. E ricordiamo anche quella in cui ci dicevano di essere assatanati e con il coltello tra i denti, ma sentivamo le gambe molli, eravamo sfiduciati e convinti che ogni iniziativa si sarebbe arenata davanti a un avversario sempre troppo forte. Aumentavamo la frenesia e andavamo sempre peggio.

Le cause di una crisi sono tante. Si dice che manchino voglia, disponibilità a faticare e professionalità, ma non è facile pensare che nessuno se ne sia mai accorto e non abbia fatto qualcosa per formare adulti adatti al professionismo. Che abbiano perso la voglia di giocare, e non abbiano capito che, per mantenersi ad alti livelli qualcosa di proprio e non soltanto divertente occorra pur fare. O sono stati valutati soltanto per le gambe e non anche per il cervello, e nessuno si è accorto di questi limiti prima d’ingaggiarli.

Fanno la guerra a qualcuno, dall’allenatore alla società, in campo e fuori. Si può anche pensare che, poiché a gennaio possono cambiare squadra, sia meglio che non lascino rimpianti, ma noi, sportivi per diletto, abbiamo difficoltà a credere a queste speculazioni. Qualcuno dirà che siamo troppo ingenui ma, se il calcio fosse soltanto un mercato delle vacche, essere tifosi vorrebbe dire essere dei sempliciotti ingenui. Hanno perso il gusto di giocare o non si rendono conto della cecità della buona sorte. È vero, qualcuno parla di sacrifici fatti divertendosi, ma in questi casi sembra di sentire una cantilena che si dimenticherà se daranno soddisfazioni alla partita successiva.

È anche il caso di parlare di queste ipotesi, nonostante sia difficile crederci, ma è meglio pensare che non si gioca bene o male se si vuole, e che uno sportivo di fama, come tutti, ha giornate e periodi negativi fino a una vera crisi. Per esempio, non si è fatto qualcosa per evitarla, perché all’inizio non si vede, dopo una serie di segnali di malessere, come improvvisi cali di rendimento man mano più evidenti, tensioni nella squadra, gare sottotono e nervosismi inspiegabili. Sono andati in crisi e non ci possono uscire perché manca un gioco collettivo, che non sorge perché si gioca insieme da molto tempo o si è vissuto un periodo favorevole. I giocatori devono essere preparati per esserne protagonisti e artefici, cioè discutere e proporre schemi per conoscersi fino a coordinare i movimenti e le intenzioni. O c’è stato qualche intervento un po’ brusco, come se un periodo sottotono fosse sempre una colpa, e i giocatori, che hanno reagito nell’unico modo che conoscono, con sacrifici, fatica e furore agonistico, non hanno accettato di esserne responsabili.

Risolvere una crisi non è facile, perché non ci sono soluzioni pronte e solo da applicare. A volte si minimizzano le sconfitte sperando nella prossima gara, o si drammatizzano per stimolare una reazione d’orgoglio. Non si guarda la realtà, e s’incolpano la sfortuna, i nervi esposti, gli arbitri o la mentalità vincente che manca. A volte si verrebbero da usare le maniere forti che umiliano e creano nemici, perché, poi, in campo vanno loro e si peggiora la crisi. E l’allenatore si attribuisce qualche colpa, ma lamenta di avere a che fare con incapaci e alza la voce, che è come trattarli ancora di più da immaturi.

Certo che ignorare le loro difficoltà, mostrarsi delusi come avessero calato volutamente l’impegno e il rendimento, o colpevolizzarli come se le cause fossero mancanza di applicazione o brutte abitudini, e dopo averli voluti stimolare solo spingendoli a dare di più o umiliandoli perché sopperissero con maggiore impegno non è una soluzione.

Vincenzo Prunelli

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