Pillole

Non si parla di un mondo buono, dove gli ingenui fanno i delicati e gli altri picchiano e vincono. Il “rompigli le gambe, coniglio”, urlato alcuni decenni orsono al Filadelfia dal direttore di un importante Settore Giovanile, si sente raramente, ma non è scomparso, soprattutto dalle tribune. Ragazzini che, invece di imparare a costruire con il talento, sono condizionati a distruggere il gioco con un’aggressività a volte non controllata, se non addirittura lesiva, si vedono a ogni gara, e anche tra poco più che bambini.

Aggressività non è aggressione

Nello sport si parla spesso di aggressività, ma non si spiega che cosa voglia dire, e si confonde spesso con l’aggressione. L’aggressività è un istinto naturale, un’emozione utile e non negativa, una forza indispensabile per porsi e conquistare obiettivi, mostrare le proprie abilità, desiderio e impazienza di competere e misurarsi, collaudarsi e, nello sport, per avere la giusta energia nella gara. Non ha bisogno di essere stimolata e, se manca, non si può neppure parlare di sport, né si può ordinare, perché è strettamente collegata con la sicurezza e il coraggio per affrontare la competizione e fiducia nelle proprie capacità, tutti caratteri che si acquisiscono nella prima infanzia, che è forse il periodo più importante per imprimere una direzione ai periodi successivi. Persegue finalità costruttive, ha intensità e direzione controllate e non implica sentimenti ostili. Incanala le energie verso il gioco, favorisce la concentrazione e il controllo dell’ambiente e della situazione, e non supera il limite oltre il quale blocca energie, lucidità e concentrazione. Intesa in questo modo, nello sport può essere identificata con l’agonismo pulito, che è iniziativa, coraggio, impiego ottimale delle energie e delle risorse.

Su un piano psicologico, un’aggressività positiva, nel bambino, permette di superare situazioni di disagio e inadeguatezza. più tardi, di mostrare le proprie qualità ed essere lucidi per usarle, acquisire sicurezza e coraggio per avventurarsi nel nuovo e nello sconosciuto, dove si può trovare il talento. Nello sport, inoltre, la concentrazione sulla gara e la continuità del rendimento derivano dalla consapevolezza dei propri mezzi, e l’aggressività è incanalamento delle energie verso la prestazione, tutte condizioni non dominate da paure e insicurezze.

È l’aggressività male indirizzata che si può trasformare in aggressione.  È quando si lascia che l’agonismo diventi tensione, furore, frenesia priva di controlli o, addirittura, violenza, tutte emozioni che contrastano la lucidità e il controllo razionale della prestazione. Quando si usano termini quali rabbia, cattiveria e odio, oppure si ricorre a trucchi e furbate, o a provocazioni come un’entrata assassina, uno sputo o insulti che provocano reazioni scomposte e punibili e fanno perdere la concentrazione all’avversario. Spesso, si stimola aggressività per mobilitare ogni energia utile per la prestazione e, anzi, c’è stato chi, per aumentarla, si augurava iniezioni di anabolizzanti. Non ne conosceva gli effetti disastrosi, ma non sapere e fare ugualmente è pur sempre una colpa.

Per non cadere nell’accusa di confondere lo sport con il francescanesimo, occorre parlare di alcune cause e dei tanti limiti dell’aggressività lesiva nello sport. Un tempo, era una violenza pressoché giustificata da caratteri di certi sport considerati di per sé violenti e, quindi, quasi “fisiologica”, come si dice quando si vuole considerare lecito anche ciò che non lo è. Oggi, invece, sembra prevalere un machiavellico “il fine giustifica i mezzi”, ma senza ricordare che allora ci si riferiva al vantaggio comune prima di quello personale. L’obiettivo, già con il bambino, è la vittoria a tutti i costi e, a volte, con qualsiasi mezzo e sotterfugio. Si chiedono prestazioni superiori alle possibilità, senza considerare che s’impongono esecuzioni e ripetizioni “sicure” ed estranee al talento, che si scopre con il gioco e la possibilità di provare e sbagliare senza essere umiliati o puniti. L’agonismo deve essere quello dell’adulto, senza considerare che, per un giovane non preparato, significa evitare i rischi certi quando si prova il nuovo e si gioca soltanto per non sbaglare. Si deve gareggiare ai limiti della resistenza fisica e psicologica, che escludono la lucidità e la sicurezza della prestazione.

Si potrebbe dire che un giovane arrivato al senso critico si potrebbe sottrarre a questo condizionamento, ma i primi anni, nello sport e ovunque, marcano anche impronte che non si possono più cancellare. E quando un giovane possiede soltanto i modi che gli hanno insegnato e non li sa cambiare, può soltanto esasperarli. E, per non peggiorare, cianfrusaglie come rompigli le gambe, lo devi odiare, picchia, abbattilo e ogni stimolo simile, non possono essere sostituite che con “gioca meglio dell’avversario”.

Vincenzo Prunelli

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