Quando si critica un metodo, si descrivono soltanto gli aspetti negativi, ma uno sportivo mette sempre qualcosa di proprio e può raggiungere buoni livelli con qualsiasi tipo di formazione. Se, però, non è allenato a cercare il nuovo, imporre l’iniziativa personale o giocare per vincere invece che difendersi per neutralizzare quella dell’avversario, perde sempre qualcosa. È evidente che, se non è allenato ad analizzare in modo critico le situazioni e a cercare le soluzioni e; se non è abituato e a trovare la soluzione migliore o a impiegare la creatività per inventarne una nuova, manca della prontezza, garantita dagli automatismi, per trovarle in un attimo da solo.
Gli stimoli che non danno coraggio
È naturale che ogni genitore o istruttore, a un giovane, cerchi di dare carica e coraggio e di non sovraccaricarlo di compiti che lo possano distogliere da impegni importanti come la scuola, ma spesso è facile ottenere il contrario. Alla base di questi errori, ci sono ancora convinzioni personali dure a morire. Per esempio, tanti credono ancora che lo sport debba andare a un’esasperazione fisica, che serve quando si fugge da un pericolo, e non per una lucidità immediata. Che tutto vada trasformato in energia fisica senza neppure bisogno di pensare, mentre il rendimento è lucidità, attenzione e capacità di scegliere le soluzioni adatte alla singola situazione. Che per trasformare un giovane in un campione basti farglielo credere, o che caricarlo di un eccesso di furore gli consenta di mettere in campo tutte le energie.
Per esempio, cercare di convincere un giovane di essere un campioncino, gli fa perdere le giuste misure, riduce l’impegno a migliorare e, di fronte alle prove negative e agli inevitabili insuccessi, lo espone a delusioni e a convincersi di non essere in grado di affrontare e risolvere da solo le situazioni sconosciute. Pensare a tutto per spianargli la strada o chiedergli soltanto di eseguire e impiegare soluzioni pronte e non sue, lo lascia impreparato di fronte a quelle che deve affrontare da solo. Cercare di sollecitarlo con miraggi di successo senza considerare i limiti e i momenti dello sviluppo, prima non lo coinvolge e, più tardi, lo carica di attese troppo pesanti che lo convincono di non poterlo mai raggiungere. Oppure, credere di poterlo stimolare con interventi non spiegati, parole e tutto ciò che non chiama in causa la responsabilità o atti solo formali, lo porta a credersi incapace di valutarsi e di trovare gli stimoli da solo. Usare stimoli che vorrebbero risvegliare sicurezza e determinazione, implicitamente ne rivelano la mancanza e l’incapacità di trovarle da soli. Parlare di un avversario troppo forte o di gara decisiva da vincere a tutti i costi per stimolare un impegno che l’allievo non sa trovare da solo, lo predispone a difendersi per non soccombere piuttosto che a usare il proprio talento per imporsi. Sopravvalutarlo per dargli la carica e mandarlo in campo più sicuro, gli fa capire che si tratta di una manipolazione che lo fa dubitare delle proprie capacità. Al contrario, rimproverarlo e parlare dei suoi limiti perché reagisca con l'orgoglio anche quando sente di non potercela fare, oppure coprilo d’inutili raccomandazioni, alla fine gli toglie sicurezza e lo convince che da solo non ce la può fare. Addirittura, presentarsi come modello troppo lontano per essere imitato e soltanto da seguire, o cercare di incoraggiarlo troppo, gli fa capire che non ha mezzi né coraggio e avrà sempre bisogno di qualcuno che lo porti per mano.
Di solito, quando un istruttore impiega questi stratagemmi con un allievo, lo fa con tutta la squadra. Parla della concentrazione da prestare e di sistemi sicuri per vincere, dell’attenzione da prestare, dei rischi che si corrono se non si dà il 110 per cento, di un impegno che può soltanto essere dato dalla consapevolezza dei propri mezzi e dalla sicurezza di saperli sempre impiegare a massimo e, se poi si perde, è stato soltanto perché l’avversario era più forte.
Favorire una mentalità rinunciataria. Per esempio, per difendere il risultato, c’è chi richiama sempre indietro la squadra appena in vantaggio o la cambia con giocatori più adatti alla fase difensiva, e quindi si adegua troppo alle forze dell'avversario, che prende fiducia e mette in difficoltà. Può sembrare la mossa più logica, ma se una squadra è in vantaggio per un gioco migliore, perché non continuare con la stessa intensità invece di lasciare l’iniziativa in mano all’avversario?
Le cause vengono anche da più lontano. L'abitudine a giocare solo per vincere già con i bambini fa sì che una volta raggiunto il risultato, si giochi subito un'altra gara, nella quale non ci si regola più sulle proprie forze, ma solo su quelle dell'avversario per poterle neutralizzare. Ogni partita e, addirittura, ogni azione dovrebbero essere giocate sempre per imparare e ottenere il miglior risultato di là della sua forza, del pubblico contro o del risultato già acquisito. Si dirà che giocare sempre al massimo è troppo faticoso, ma la condizione più appagante e meno faticosa è giocare sempre al meglio, che non richiede frenesia e furore, ma permette di impiegare le qualità del talento, che fanno affaticare gli avversari.
Non è semplice da spiegare, ma tutte queste manovre hanno effetti che vanno contro fattori che migliorano la prestazione. La tensione, la mancanza di lucidità e la paura di perdere, per esempio, costringono la mente a lavorare ai primi livelli dell’intelligenza. In questo modo, il dubbio e la paura di sbagliare e di essere sovrastati impongono di pensare l’azione prima di eseguirla, ma intanto frenano gli automatismi, che mettono in atto le azioni senza bisogno di pensarle e costruirle.
Vincenzo Prunelli
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