Abbiamo visto un modo nuovo di fare e condurre una squadra. Mancini non è un allenatore che guarda dall’alto i giocatori e mantiene le distanze, ma sta in mezzo a loro, parla, e in campo corregge, ma non accusa né umilia. I giocatori non mostrano segni di tensione, parlano e scherzano con gli avversari, e sono tranquilli da non avere paura. Ha anche qualità di guaritore: gli infortunati passano all’istante dalle contorsioni per il dolore a corse per esprimere tutta la loro gioia e felicitarsi con i compagni dopo un gol. E gli spagnoli rispondono sullo stesso tono, e forse sono così, ma certo anche perché hanno lo stesso tipo di allenatore.
Il calcio nuovo di Mancini
Era difficile immaginarlo, ma Mancini ci ha creduto e ha costruito una Nazionale partendo dal materiale che aveva. Ha tenuto giocatori affermati, ma ha aperto a giovani ancora sconosciuti che non hanno fallito. Ha trovato giovani non ancora celebrati per proporsi a grandi livelli, ma anche in grado di compiere prodezze subito. Per capire, dobbiamo tornare indietro nel tempo, e chiederci perché, salvo casi particolari, ci siamo abituati a considerare i giocatori più forti da “allevare” fino a poterli usare in Nazionale. E a quando, prima di considerarli titolari fissi in serie A, occorreva mandarli a “farsi le ossa” in squadre più deboli o nelle categorie inferiori, senza considerare che un giovane in evoluzioni ha bisogno di giocare con altri di livello almeno pari, e non inferiore.
Abbiamo trovato un clima insolito. Ha fatto piacere la dichiarazione di Chiellini, che parla di giocare con follia e spensieratezza o, in altri termini, di trasformare lo sport in piacere, il gioco in una prova per vincere con l’entusiasmo e la sicurezza e non nella paura di perdere, e di provare il nuovo e il bello senza temere l’errore. Ha dato un esempio di tranquillità e di equilibrio emotivo, che ha trasmesso al pubblico, scherzando con Jodi Alba prima di una partita così importante. E ci è piaciuto vedere Immobile e Belotti o Sirigu e Donnarumma, in lizza per un posto in squadra, essere ottimi amici fuori del campo o darsi consigli prima dei rigori.
Non si sente parlare di gara da ultima spiaggia e avversario troppo forte, che vuole dire togliere sicurezza, coraggio di osare e lucidità, che sono fondamentali nell’agonismo, e allenano a pensare prima di tutto a difendersi, mentre il rendimento si esprime quando si impone il proprio gioco. Si parla invece di sdrammatizzare e andare a divertirsi, che ancora oggi da tanti sono interpretati come disinteresse, svogliatezza e mancanza d’impegno. Qualcuno, quaranta anni fa, aveva definito il massimo della concentrazione il raccontarsi l’ultima barzelletta entrando in campo, che significa sentirsi sicuri e provare la sensazione emotiva della miglior partita giocata e non perderla, dove non c’erano paura e gambe molli. Allora non era stato capito, ma è ciò che sta avvenendo ora.
Al clima della partita ha contribuito anche l’allenatore e dalla squadra avversaria. Louis Enrique che, come Mancini, non ha avuto timori a ringiovanire la squadra in una manifestazione importante. Se ne è accollato tutti i rischi, ha mostrato eleganza e garbo in ogni momento della gara, non ha cercato giustificazioni per la sconfitta pur avendo giocato meglio, si è fermato a parlare con molta cortesia con Chiesa, non ha dato segni di nervosismo nonostante il risultato e ha salutato gli avversari dopo la gara. Ci auguriamo che questi due allenatori, che non sono i soli, continuino a proporre il calcio e i protagonisti che abbiamo visto agli europei.
Nella partita, abbiamo apprezzato una partecipazione corale e un agonismo pulito, fatto d’iniziativa lucida e non di furore scoordinato, ossia si è cercato di giocare meglio dell’avversario e non solo di neutralizzarlo in qualsiasi modo. Nessuno si è tirato indietro e ha badato a non fare brutte figure per aiutare un compagno a uscire da una situazione complicata, e non si sono visti gesti irritati dopo gli errori. Non sono stati inviati messaggi vittimistici, tanto che alle nostre partite il pubblico si è limitato perlopiù a fare il tifo per una squadra e non contro quella avversaria, non è stato è stimolato da scene in cui il giocatore lamenta ingiustizie, entrate assassine e dolori insopportabili, non ha modo di vendicarsi e delega il pubblico a fare giustizia. La partita è stata corretta per quanto può consentire l’importanza di un campionato europeo, senza gli interventi volontariamente violenti che scatenano un clima aggressivo. L’atmosfera in campo è stata insolita, senza nervosismi e reattività scomposta, tanto che siamo stati più lucidi e meno timorosi ai rigori.
Poi, siamo arrivati alla finale, subito iniziata male e c’è stato un po’ di smarrimento, anche perché non ci eravamo mai trovati in svantaggio. Gli inglesi hanno preso il sopravvento e abbiamo visto qualche rimprovero tra i giocatori senza, però, incidere sul comportamento di nessuno. Mancini, per la prima volta, non è riuscito a mascherare la preoccupazione e, ci siamo resi conto che più che essere un freddo, riesce a mascherare le emozioni che non superano un certo livello. Senza grande affanno, la squadra ha ripreso il proprio ritmo e, di lì in poi, ha dimostrato che la vittoria non è stata un colpo di fortuna. Abbiamo vinto, e forse lì abbiamo capito fino in fondo il lavoro di Mancini. Ha creato una situazione di vita normale, dove ognuno amministra le proprie forze senza essere assalito da stimoli ansiogeni, può provare qualcosa di nuovo e di imprevisto con la certezza di poter sbagliare senza subire un giudizio negativo, gioca una partita intera o anche soltanto pochi minuti senza risparmiarsi, oppure mai senza sentirsi escluso.
La differenza si è vista con gli inglesi, che hanno giocato la loro partita con tutto l’impegno possibile e magari un po’ di più perché non potevano perdere. Dopo, si sono presentati come fossero offesi per una partita persa perché gli avversari hanno giocato meglio, e questo è già segno di un limite caratteriale. Alla premiazione avevano musi lunghi, e subito si sono tolte le medaglie dal collo come avessero subito un furto o fossero stati truffati di una vittoria dovuta. In questo modo si sono mostrati antisportivi e irrispettosi verso gli avversari, chi ha organizzato la manifestazione e lo sport, e non sanno vincere né perdere.
Cari inglesi, conquistare la medaglia che va ai vincitori, bisogna prima meritarla e poi vincerla, ma non è più l’Inghilterra di una volta.
Vincenzo Prunelli
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