Egregio Professor Odifreddi, ho letto il Suo articolo su La Stampa di mercoledì 13 luglio, e ho sentito la necessità di parlare di cose che magari danno poco sul pratico, ma fanno vivere momenti di gioia. Lo sport dà cose di cui non si parla mai, ma sono fondamentali sia per la salute fisica che mentale.
È il confronto tra i due emisferi cerebrali. Il sinistro s’interessa di più alle scienze, regola la razionalità, il linguaggio, l'analisi, la capacità matematica e il ragionamento. Lavora su ciò che è reale, arriva alla soluzione attraverso passaggi ed è più attento a evitare errori. Si può dire che, nello sport, rallenta gli automatismi e restringe l'attenzione a svantaggio della visione d'insieme. Il destro presiede alle attività regolate da critica, intuizione, inventiva, fantasia e sintesi. Ha più importanza negli sport di situazione, perché dà lucidità e pensiero rapido e creativo per intuire ciò che potrà avvenire e rispondere con iniziative immediate, ed è più esposto all’errore, perché è guidato dall’intuizione e dall’immediatezza. Nessuno dei due, però, è più importante dell’altro.
Anche il calcio ha la propria nobiltà
Non stupisce che lo sport di alto livello, e specie il calcio, abbia perso molta poesia e ricordi piuttosto Piazza Affari, e che molti suoi attori a volte escano dai margini ragionevoli che ci aspetteremmo da adulti così conosciuti, ma è indubbio che la vittoria agli Europei ci ha resi orgogliosi e ha unito gli italiani in un momento comune di gioia.
Di calcio come spettacolo e lavoro si conoscono tante esagerazioni. Certo piace se nei primi anni un bambino è stato libero di giocare e vivere la propria esuberanza, e dopo l’ha praticato perché ha scoperto di avere talento, come ama di più dedicarsi agli studi chi ha un’intelligenza vivace. Ed è anche vero che la mentalità dello sportivo e del giocatore sono diverse, ma bisogna dire che le due condizioni, e di più nello sport di vertice, convivono meglio quando sono vissute insieme con effetti benefici reciproci, e che sono il massimo per entrambi quando sono sviluppate nello stesso modo e alla fine coincidono.
Il calcio mostra la sua importanza, che è soprattutto educativa, nello sport di tutti. Lei parla del calcio come scuola di vita, per qualcuno l’unica, in paesi sottosviluppati come lo era l’Algeria ai tempi dell’infanzia di Camus, ma è rimasto tale anche nella progredita Italia di oggi. È uno sport a buon mercato praticato dalla maggior parte dei giovani, anche se l’illusione di formare il campione già nei piccoli l’ha trasformato in una specie d’industria digitalizzata che lavora su tutti allo stesso modo, mentre ci augureremmo fossero affidati a veri artisti o, almeno, a raffinati artigiani. Non avverrà più se non in oratori, dove si va semplicemente per giocare, perché oggi, a qualsiasi livello, anche i bambini, che almeno fino ai dieci anni imparano dal gioco libero e non da insegnamenti teorici, devono essere iscritti in società che hanno l’obiettivo di scoprire e formare il campione.
Deve evolvere anche una cultura dello sport, e in particolare del calcio, che potrebbe avere tante potenzialità educative. Una cultura che badi prima alla persona e solo dopo allo sportivo, perché un bambino non è un piccolo adulto, e non parli più di fatica, sacrificio e adrenalina, ma di piacere, divertimento e motivazioni, che sono i più grandi stimoli all’impegno e al rendimento, come ci ha fatto vedere la nostra Nazionale agli Europei. Non è difficile, ma impone alcune cautele e attenzioni, come il rispetto delle fasi di sviluppo, perché la formazione dell’adulto inizia forse dal neonato e continua nel bambino con il gioco e poche regole, che è più efficace che qualsiasi insegnamento teorico. A nessuno, e specie a un giovane, si può chiedere più di quanto sia in grado di dare, perché non stimola l’ambizione, ma trasforma il fallimento in insicurezza e rinuncia. Sbagliano, però, anche la famiglia e la scuola, quando danno le soluzioni invece di fornire soltanto gli elementi perché i giovani le trovino da soli. Insegnano soprattutto ad applicare ciò che si sa, mentre dovrebbero allenare a scoprire ciò che è ancora sconosciuto. Un giovane deve scoprire tutte le proprie qualità, che non è possibile soltanto eseguendo, ma provando il nuovo e il creativo quando la situazione lo richiede e lo permette, potendo sbagliare e utilizzando in gruppo l’errore come insegnamento per arrivare a una soluzione originale e imprevista. Elimina la punizione, che stimola rivalsa o ribellione, e fa pagare conseguenze naturali non eludibili, che stimolano la responsabilità, perché anche il bambino inizia a viverle come un patto tra adulti. E, non immaginabile, ha effetti positivi sulla scuola. Agisce sul cervello e genera cellule di riserva per gli imprevisti della vita e per la mancanza dell’età avanzata. Produce neurotrasmettitori che alzano il tono dell’umore o fanno tollerare meglio i dolori, mentre la scuola agisce, come ovvio, sulla conoscenza e lo sviluppo intellettivo, ma anche sulla sicurezza e sulla lucidità nello sport.
Torniamo alla partita il cui l’Italia ha vinto la Coppa Europa, e vediamo di offrire un’interpretazione diversa del calcio, che Lei ha analizzato da non praticante. Si gioca con i piedi e non con la testa, ma i piedi sono gli arnesi da lavoro, mentre la testa è la centralina che progetta e comanda ogni movimento e intenzione. Il talento, infatti, non è il movimento del fisico, ma tutto ciò che se ne fa con la mente. Ricerche hanno provato, per esempio, che giocatori con più talento hanno livelli d’intelligenza superiori alla media. A volte non è facile crederci, ma è perché molti sono ancora cresciuti con insegnamenti fondati su pure esecuzioni e sulla ripetizione di dati forniti dall’istruttore. E per questo tanti sono ingegnosi ma, purtroppo, non lo sanno.
Ci sono stati “orgasmi collettivi” sulle piazze. Si dice che fanno piangere solo vedendoli dimenarsi, ma sono gli stessi definiti “italiani meravigliosi, maturi e responsabili” purché accettino qualsiasi imposizione, che vanno a infettarsi e a contagiare ogni giorno per le strade senza che nessuno si scandalizzi troppo.
Lei qualche dubbio se lo lascia scappare, o forse lo ammette, ma lo psicanalista non va a curiosare nella testa di chi non glielo chiede. E se lo deve fare, non scandaglia i motivi consci, di cui siamo consapevoli, ma quelli che non conosciamo, che però hanno collegamenti con la vita reale e ci condizionano nel bene e nel male.
Vincenzo Prunelli
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