Calcio

Qui parliamo del talento vero, quello che spicca per intelligenza e grandi mezzi tecnici, ma non ha ancora raggiunto lo sviluppo e le esperienze per impiegarli.

Lo vorremmo ancora oggi per crescerlo secondo metodi più moderni e adatti ai tempi, ma lo sport lo pialla annullando le differenze che lo distinguono e si accontenta che faccia meglio ciò che fanno tutti.

Lo riconosciamo per la facilità di intuire e di entrare nei ragionamenti, la risposta inattesa o il modo arguto di cogliere sfumature che ad altri sfuggono. Lo "sentiamo" soprattutto quando siamo disponibili ad ascoltarlo, senza dare giudizi o soluzioni, ma anche senza piegarci per conquistarlo. Ma attenzione! È un tipo polemico che ha sempre una spiegazione o che ci fa sentire qualcosa di particolare in qualsiasi cosa faccia. È geniale nelle associazioni e capace di arrivare subito alle conclusioni, ma lo “sentiamo” soprattutto quando ci irrita perché si oppone, perché è geniale anche quando decide di essere distruttivo.

Pensiamo che abbia immagazzinato o possieda per natura tutto ciò che precede la sua età, mentre ha solo i mezzi per prestazioni e obiettivi che gli altri raggiungono più tardi, ma non ancora la maturità e le motivazioni. Con lui, quindi, è facile commettere errori. Il primo è quando lo penalizziamo con la nostra considerazione: lo trattiamo come un fenome­no che può più degli altri e al quale è più facile imparare e vincere, e per questo pretendiamo più di quanto può dare.

Ha tutto per diventare un campione. È un fuoriclasse in erba, che ha inventiva e doti tecniche uniche, ma gli mancano le esperienze, i mezzi fisici, l'armonia delle giocate, il senso del collettivo o il "carattere" per la prestazione. Più di tutto, se non interveniamo sul suo sviluppo, gli mancano la capacità di "utilizzarsi" e la continuità. Sembra impossibile che proprio la sua dote lo renda più fragile e lo esponga a rischi inevitabili, oltre che maggiori e diversi da quelli degli altri. Il perché è chiaro. Pensiamo, ad esempio, alla sua intelligenza; la possiamo definire "superiore" o spesso "geniale". Lo è, ma è anche disarmonica perché, più che negli altri, le capacità mentali di cui è provvisto non possono essere sviluppate tutte nella stessa misura.

Allo stesso modo, la maturità affettiva ed emotiva e la capacità di usare la sua maggior dote non hanno motivo di essere più sviluppate per natura. Anzi, possono essere inattivate da un rapporto iniziale troppo facilitato con l'ambiente e con lo sport. Altrettanto precari possono essere tutti quei tratti del carattere e della personalità che si formano solo con l'esperienza e la verifica continua delle proprie forze.

A queste disarmonie si affiancano caratteri propri dell'età reale, e col tempo altri che, proprio per le condizioni, i vantaggi e gli svantaggi offerti dalla dote, non ha avuto necessità di sviluppare o ha sviluppato in un modo che crea altra distanza con i suoi coetanei. Pensiamo, ad esempio, al talento riconosciuto e trattato come tale. Può essere troppo appagato, e i successi garantiti inaridiscono il desiderio di scoperta e di verifica, che è forse il più potente stimolo alla maturazione. Non ha, quindi, motivo e occasione per prendere atto di essere solo abbozzato e, di conseguenza, non può avvertire il desiderio di completarsi.

Il talento è molto sensibile agli stimoli positivi e negativi dell'ambiente. È ansioso e intimamente polemico e oppositivo, perché sente di avere delle potenzialità, di "valere", ma deve anche sottostare a dei limiti e ai ritmi degli altri. Sente di essere apprezzato nello sport, ma non allo stesso modo altrove, dove rischia di accumulare delusione e frustrazione. Cerca dunque anche qui la stessa considerazione, ma il risultato è che esce di misura o si avventura in esibizionismi che gli altri non accettano, e a questo punto soccombe davvero di fronte alla coalizione dei "normali".

Anche lo sport può diventare un fattore di squilibrio evolutivo. Può fargli credere di vincere ed essere al centro dell'attenzione sempre, e di potersi porre in una posizione di superiorità, ma questa pretesa gli impedisce di vivere rapporti paritari, gli unici che sono anche produttivi. Oppure lo può allenare a privilegiare lo sport, nel quale è sicuro di prevalere, ma a spese di altre possibilità per valorizzarsi, come si può vedere nel non raro abbandono della scuola o in una sua frequenza priva di impegno e di partecipazione. In tutti questi soggetti abbiamo sempre scoperto forti implicazioni emotive, in particolare, un desiderio sofferto di affermazione e, non inattesa, una forte ansia di fondo dovuta a vari fattori. Alla loro carica aggressiva, ad esempio, che contrasta con gli interessi e la disponibilità allo scambio reciproco, alla distanza che li separa dagli altri, che, pure, li ammirano, ma soprattutto all'impos­sibilità di esprimere in altri modi la loro forza creativa.

C'è anche il caso del talento introverso e taciturno, un tipo che si esprime con una creatività e un pensiero astratti e teorici, e coltiva, o potrebbe coltivare, interessi profondi e culturalmente validi, ma non compresi e spesso del tutto estranei alla mentalità che lo circonda. Il talento introverso corre due tipi di rischi: di essere fin troppo apprezzato dagli adulti, ma di non riuscire a sviluppare quel senso di compartecipazione emotiva indispensabile a provare inte­resse e a integrarsi con i coetanei, oppure di non essere capito da nessuno, e di essere sconfitto dalla coalizione degli altri, più agguerriti anche se dotati delle stesse qualità intellettive. Questi sono i casi paradossali di quei ragazzi, o anche atleti affermati, che finiscono per essere esclusi e ritenersi non all'altezza degli altri in tutto e, in particolare, per le capacità intellettive.

L'attenzione verso il talento ha anche un'altra ragione. Sono troppi quelli che falliscono anche quando trovano condizioni favorevoli. I motivi sono la loro specificità e certe particolarità del loro sviluppo, ma soprattutto certi errori di chi li educa, specie quando dimentica che il talento è solo una pura potenzialità da coltivare, capace di straordinari sviluppi, ma anche di fallimenti altrettanto vistosi. Quasi sempre, ci inganna che nei primi tempi non deve ancora fornire prove precise e accontenta tutti. Non incontra difficoltà, ma questa tranquillità è messa a dura prova non appena deve vincere e far vincere, inizia a misurarsi con altri ugualmente dotati o crede di poter pretendere sempre la stessa considerazione.

Troppo spesso, però, si tratta da talento un bambino che non lo è. Talvolta, un gesto, una battuta pronta, un'iniziativa logica, una prodezza tecnica casuale o anche solo una vivacità esuberante appaiono indizi di particolare ingegno e talento e possono illudere di trovarsi di fronte a un futuro campione.

Il bambino sopravvalutato dall'adulto, specie se si tratta del genitore o, nel nostro caso, dell'allenatore, in un primo tempo sviluppa modi e atteggiamenti tali da accattivarsi altre attenzioni. In un secondo tempo, però, la mancanza di conferme e l'incapacità ad adattarsi alle esigenze della sua fase di sviluppo e a valutarsi in modo realistico lo possono portare a insicurezze e frustrazioni ancora più pesanti di quelle del superdotato, perché ha minori risorse per difendersi.

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